Biodiversità e conservazione dei licheni terricoli negli habitat aridi

Che mi occupo di habitat aridi, e che questi habitat aridi mi piacciono un sacco, credo che ormai si sia capito in modo abbastanza chiaro. Nonostante questo, sembra che per molti rimanga invece oscuro il motivo per cui abbia deciso di concentrare i miei sforzi scientifici proprio su questi habitat brulli, improduttivi e superficialmente ritenuti brutti.
Condenserei la risposta in tre concetti:
sono habitat interessanti per la posizione che occupano nella successione della vegetazione, per i processi che vi hanno luogo e per le specie che ospitano;
sono habitat importanti, proprio perché fondamentali per consentire i processi e fornire un ambiente di vita alle specie di cui sopra;
e proprio per questi motivi sono anche habitat da proteggere.
Un quarto concetto è che sono importantissimi per i licheni terricoli – quelli che mi hanno sempre affascinato ed interessato di più – ma questa è una ragione strettamente personale, mentre le prime tre sono oggettive e condivisibili da chiunque abbia a cuore la conservazione della natura e della biodiversità in generale. E ad ogni modo i licheni terricoli, in quanto parte della biodiversità complessiva, rientrano a pieno titolo anche nelle prime tre.

Da decenni il valore degli habitat aridi è ben noto in Europa, e sono stati effettuati numerosi studi sia sulle diverse componenti delle comunità biologiche che vi si trovano sia su come queste componenti interagiscono tra loro.
In Italia però questi habitat sono piuttosto trascurati, probabilmente anche perché non riscuotono in genere molto interesse, e non solamente da parte del grande pubblico. Ciò non li rende meno importanti, e in particolare nella Pianura Padana, l’area d’Italia più impattata dalle attività umane, i pochi frammenti di questi habitat sono particolarmente preziosi per la biodiversità…ma quasi completamente ignorati.

Una mappa che mostra la distribuzione degli habitat aperti aridi ricchi di licheni nella Pianura Padana centro-occidentale; si ringrazia la pazienza del dott. Matteo Barcella.

Per capire questi habitat e il loro valore, bisogna conoscerli almeno un po’.
Gli habitat aridi sono tali in quanto si sviluppano su suoli molto drenanti, che non riuscendo a trattenere l’acqua in superficie presentano per l’appunto una spiccata aridità. In genere questi suoli sono poco evoluti, costituiti prevalentemente da materia minerale e povera di sostanze organiche e, quindi, poveri di nutrienti. Riuscire a colonizzare substrati poveri di acqua e di nutrienti non è per nulla facile, pertanto in questi ambienti si trovano delle specie vegetali piuttosto particolari, che durante la loro storia evolutiva si sono adattate proprio a far fronte a queste particolari condizioni. Ma oltre alle piante vascolari, in questo tipo di ambiente prosperano alcune crittogame, e in particolare i licheni terricoli.

Di questi habitat, le praterie aride calcaree sono forse quello più noto. Come dice la definizione, sono praterie (cioè vegetazione costituita da piante erbacee) che si svilupano su suoli calcarei, quindi con elevato pH e che contengono calcio.
Vi sono però anche le praterie aride acidofile, che si sviluppano invece su suoli acidi, con pH molto basso e privi di calcio.
Il terzo habitat arido di bassa quota presente nelle regioni continentali è rappresentato dalle brughiere a Calluna vulgaris, caratterizzate, almeno negli stadi pionieri, da una palese dominanza del brugo (Calluna vulgaris), che conferisce un aspetto di arbusteto basso ben diverso dalla fisionomia delle praterie; queste brughiere si sviluppano su suoli acidi.

Vedendola in una prospettiva conservazionistica, ciò che accomuna questi tre tipi di habitat è la necessità di gestione attiva, in mancanza della quale essi sono destinati a scomparire a causa dell’evoluzione del suolo e della successione della vegetazione, due processi che si influenzano a vicenda. Infatti, la deposizione di sempre più sostanza organica man mano che muoiono i primi colonizzatori del terreno innesca e sostiene l’evoluzione del suolo, che a sua volta arriva ad offrire condizioni migliori per piante che non sarebbero state in grado di sopravvivere su suoli pionieri, poveri di acqua e nutrienti, quelli insomma tipici delle fasi iniziali della dinamica della vegetazione. Questo processo si autoalimenta e determina il passaggio ad habitat più evoluti, in cui ovviamente le specie degli habitat pionieri scompaiono, soverchiate da altre che nelle nuove condizioni ambientali si dimostrano più competitive.


Di per sè, questo è del tutto naturale. Tuttavia, la necessità di una gestione attiva è resa urgente al giorno d’oggi per il fatto che sono venute a mancare quelle attività che in passato consentivano spontaneamente la sopravvivenza di questi habitat. Si trattava di attività che in qualche modo interrompevano questa dinamica e riportavano il suolo ad una condizione più pioniera. Ma ora non avvengono più: le praterie aride non vengono più pascolate o vengono sovrappascolate (il pascolo a bassa intensità infatti le favorisce, ma un pascolo troppo invasivo le distrugge), le brughiere non vengono più pascolate né bruciate, e i fiumi sono troppo imbrigliati per poter dare luogo a quelle dinamiche naturali che un tempo portavano a rendere disponibili nuove superfici colonizzabili da questi tipi di vegetazione.
È quindi riconosciuta dalla comunità scientifica la necessità di gestire questi Habitat per scongiurare la scomparsa sia degli habitat stessi sia di quelle specie ad essi strettamente legate – e attenzione: non si tratta solamente di crittogame e piante pioniere, ma di moltissimi altri organismi, soprattutto invertebrati. Proprio in quest’ottica agisce quel progetto Life Drylands di cui già tanto vi ho parlato.

Di fatto, delle linee guida sulla gestione di questi habitat già esistono, tanto a livello comunitario quanto a livello delle singole nazioni europee (o per lo meno, di alcune).
Ma cosa manca?
È presto detto: manca l’attenzione alle crittogame, che proprio in questi habitat sarebbe di vitale importanza!
Come avevo già ricordato in una serie di post precedenti, proprio gli habitat aperti aridi sono particolarmente ricchi di licheni terricoli in generale. Non solo: nel contesto fortemente impattato dall’uomo tipico della Pianura Padana, sono gli unici habitat in cui si trovano ancora questi licheni (Gheza et al. 2020b). La nostra Pianura Padana è quindi un ottimo caso di studio anche per indagare cosa accade quando questi habitat si trovano in condizioni non ottimali.

Ecco quindi che, mancando proprio una ‘semplice’ base per comprendere alcune dinamiche tipiche di questi habitat e stabilirne le necessità di conservazione proprio qui in casa nostra, urgeva uno studio che investigasse queste informazioni e le mettesse nero su bianco. Si è trattato fondamentalmente del fulcro concettuale e pratico del mio dottorato, sviluppato in collaborazione con diversi colleghi, che è finalmente stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista di settore Biodiversity and Conservation (Gheza et al. 2020a).
In questo lavoro abbiamo preso in considerazione non solamente i licheni ma anche le briofite (muschi ed epatiche), indagando come la ricchezza specifica e la composizione a livello di comunità di questi due gruppi di organismi variano tra i tre habitat sopra indicati. Inoltre abbiamo analizzato come le caratteristiche ambientali (clima, suolo, vegetazione) influenzano questi parametri nei tre habitat, con particolare riguardo alla dinamica della vegetazione, che, come raccontavo in apertura, è il fenomeno tradizionalmente ritenuto l’arcinemico della conservazione degli habitat aridi pionieri.

I risultati sono stati congruenti con quanto avevamo in parte previsto già con osservazioni di campo.
Le praterie acidofile si sono dimostrate l’habitat più ricco di licheni, e conseguentemente anche quello più ricco di specie di interesse conservazionistico. Il contributo maggiore lo hanno dato ovviamente le Cladonie, licheni tipicamente terricoli e per la maggior parte acidofili. Meno ricche le praterie calcaree, e poverissime le brughiere – ma non perché l’habitat in sè sia povero di licheni, bensì per altri motivi, che vedremo tra poco.
Dal punto di vista della composizione, abbiamo dimostrato che i tre habitat sono significativamente distinti non solamente in base alle piante vascolari – l’elemento che viene usato appunto per la definizione dell’Habitat – ma anche per quanto riguarda le comunità sia di licheni sia di muschi. Questo suggerisce che anche le crittogame dovrebbero essere prese in considerazione per la definizione di almeno alcuni habitat.
È poi interessante notare che si verifica una sovrapposizione delle comunità crittogamiche nel caso in cui il sito sia disturbato: l’eccessivo disturbo, a prescindere dall’habitat, porta ad un impoverimento e a una conseguente omogenizzazione biologica in cui sopravvivono solamente poche specie generaliste con una vasta ampiezza ecologica, come le onnipresenti Cladonia rangiformis e Cladonia rei e il muschiaccio Hypnum cupressiforme. Un processo in sostanza molto simile a ciò che avviene nelle comunità epifite in presenza di disturbo (ne avevo parlato in un precedente post in relazione all’impoverimento causato dall’invasione dei boschi autoctoni da parte della robinia).
Ma il risultato più significativo dal punto di vista conservazionistico/gestionale, ottenuto analizzando le forme biologiche delle piante vascolari indicatrici del procedere dell’evoluzione della vegetazione, consiste proprio nell’aver dimostrato che, anche in questo contesto, è la dinamica della vegetazione che porta prima alla diminuzione e poi alla scomparsa dei licheni terricoli! Ciò avviene in tutti e tre gli habitat, ma si nota in particolare nelle brughiere, dove gli stadi pionieri sono in genere ricchi di licheni, che però scompaiono piuttosto in fretta non appena la competitivissima graminacea Molinia arundinacea arriva e, in breve tempo, spodesta quasi ogni altro vegetale – rivelandosi quindi deleteria non solamente per le crittogame, ma per la biodiversità vegetale in generale.

Questo lavoro è un primo importante tassello per indirizzare gli sforzi gestionali rivolti a questi habitat verso un approccio che tenga conto anche di organismi meno ‘carismatici’ come licheni e muschi, nell’ottica di salvaguardare una componente maggiore della biodiversità complessiva.
Speriamo quindi che tutti gli sforzi fatti per produrlo siano serviti a qualcosa. Il Life Drylands è un primo passo nella direzione giusta, ma il fatto di avere nel team proprio i lichenologi e i botanici che portano avanti questa crociata ormai da un lustro, se anche da un lato è una garanzia che questi aspetti saranno debitamente considerati, dall’altro diciamo quasi ne svaluta un po’ l’impatto; la vera vittoria sarà se e quando anche altrove si comincerà a riconoscere alle crittogame terricole l’attenzione che meritano…almeno in questi habitat che sono per loro così importanti!


Riferimenti bibliografici

3 pensieri riguardo “Biodiversità e conservazione dei licheni terricoli negli habitat aridi

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